Madame Paulette
“Il cappello è più di un accessorio. È un comportamento”. Madame Paulette, la regina dei cappelli

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Con la sua eleganza e la sua immaginazione spiritosa, a tratti maliziosa, Pauline de la Bruyère, conosciuta con il suo nome d’arte Madame Paulette, è stata senza dubbio la regina tra le modiste di tutto il mondo durante il secolo scorso.

La sua storia a mio parere vale la pena di essere conosciuta non solo se hai una passione per i cappelli, ma soprattutto perché come donna credo sia un esempio, in tempi in cui essere una donna libera ed emancipata era ancora più difficile di quanto non lo sia oggi. 

O almeno, per me è stato così. La sua storia mi ha affascinata e mi ha fatto sognare in grande.

Come ha fatto Madame Paulette a diventare la regina tra i modisti e i suoi cappelli icone di un secolo?

Madame Paulette, 1946. Fotografia di Harcourt

Questa domanda diventa ancora più interessante se si pensa al fatto che Paulette non ha avuto una formazione incentrata all’apprendimento di questo mestiere.

Lei stessa non ha saputo spiegare la ragione confessando: “Non importa quanto scavo nel mio passato, non riesco a trovare nemmeno un indizio premonitore della carriera che avrei scelto. Il mio talento artistico era limitato a disegnare caricature dei miei insegnanti”.

Devi sapere infatti che Pauline, che in seguito cambiò il suo nome in Paulette secondo la moda francese e americana dell’epoca di terminare i nomi in “ette”, è nata nel 1900 da una famiglia benestante di Parigi e ha avuto un’ottima istruzione, ma di certo non improntata a diventare un’artigiana viste anche le sue origini.

Ma fin da ragazza è sempre stata uno spirito ribelle e impaziente, e non appena finì gli studi non poté resistere al richiamo dell’avventura:

“Non so come ho trovato la forza di abbandonare il mio piacevole ozio e considerare di andare a lavorare… e per di più a Parigi! Volevo forse stupire la mia famiglia? Guadagnare soldi per conquistare la mia indipendenza? Penso sia stato il richiamo all’avventura la mia vera motivazione. Tuttavia, sapevo che avrei dovuto risolvere alcune difficoltà a casa. Mio padre, che adoro, nutre un assoluto disprezzo per le donne che scelgono di lavorare.”

Superando queste avversità, Paulette venne raccomanda ta da un amico di famiglia alla Maison Lewis, che all’epoca dominava lo scenario dei cappelli della moda parigina.

Non appena la vide, Monsieur Lewis disse che Pauline aveva “a head for hats” e la assunse come assistente e modella. Paulette (che aveva solo 20 anni) entrò quindi ufficialmente nel mondo della moda che, in quegli anni a seguito della Prima Guerra Mondiale, era scoppiettante!

Il salto imprenditoriale

Nel 1925, ricercando la sua indipendenza, Paulette decide di lasciare un lavoro sicuro per aprire la sua attività e avventurarsi nel mondo del design di cappelli.

Aveva 23 anni quando vendette il suo primo cappello fatto con le sue mani. Così iniziò a sviluppare un piccolo gruppo di clienti che la portarono ad assumere sempre più persone e iniziò anche a sviluppare e definire sempre di più il suo personalissimo stile.

Le piccole cose, come sappiamo, sono i veri tratti distintivi di uno stile

La sua creazione più iconica: il turbante

Nel Febbraio del 1939, esattamente sei mesi prima dello scoppiare della guerra, l’attività di Paulette andava a gonfie vele, tant’è che dovette trasferirsi in uno studio più grande al numero 63 di Avenue Victor-Emmanuel III.

La Francia era seduta su una bomba che stava per scoppiare, ma questo non fermò i balli e le feste nella capitale, mentre le donne più che mai si aggrappavano alla frivolezza come ad una zattera di salvataggio.

In poche settimane tuttavia ci fu un esodo generale. Anche Paulette andò a rifugiarsi per un po’ nel sud-ovest della Francia con i suoi figli, per poi ritornare a Parigi nel 1940 quando la capitale era ormai occupata dai tedeschi.

Sempre nel 1940 però, nonostante l’occupazione, la vita parigina riprese a vivere a poco a poco e i membri dell’alta società incominciarono a sfoggiare nuovi stili sfarzosi, dando lavoro alle case di moda e di modisteria.

È stato proprio in questo periodo che una sera, trovandosi impreparata poco prima di dover uscire per cena, Paulette improvvisò un turbante arrotolando una sciarpa di lana nera intorno alla sua testa fissandola con delle spille.

In quell’occasione ricevette un sacco di complimenti e presto la popolarità di questo turbante, dovuta anche alla sua praticità (ad esempio quando si andava in bici, l’unico mezzo di trasposto dell’epoca), si diffuse in tutta la popolazione femminile, tanto che Paulette incluse sempre questo modello nelle sue collezioni.

La mia immaginazione era il mio peggior nemico. I miei design erano a volte eccessivi per essere di buon gusto. Ho imparato a fermarmi prima di aver perso il senso dell’equilibrio

Gli anni dopo la guerra, tra fama e celebrità

Negli anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, Madame Paulette non fa che diventare sempre più richiesta per le sue realizzazioni.

Agli inizi del 1945 Paulette partecipò entusiasta ad un progetto di esibizioni itineranti della Chambre Syndicale de la Haute Couture che voleva rilanciare la moda francese all’estero.

“Palais Royal”, dall’esibizione “Théatre de la Mode” al Musée des Arts Décoratifs, Parigi, 1945.
Jackie Kennedy con il suo iconico pillbox

Nel frattempo, nel 1946, Paulette inventa un altro modello iconico: il suo famoso pillbox, un cappello di piccole dimensioni, rotondo e senza tesa, dalla corona bassa e piatta che Jackie Kennedy rese poi famoso indossandolo.

Con il ritorno degli acquirenti nella capitale, i suoi laboratori hanno presto dato lavoro a ben 120 persone. Il suo staff poteva realizzare 800 cappelli al mese, rigorosamente a mano, per l’élite di Parigi e per le più esigenti fashioniste straniere. 

La sua clientela includeva celebrità, famiglie reali e fotografi di moda come Richard Avedon, Horst P. Horst e William Klein erano soliti gareggiare per la possibilità di scattare le nuove collezioni di Madame Paulette per riviste come Vogue e Harper’s Bazaar. 

Paulette iniziò anche una collaborazione assidua anche con degli stilisti: con Cecil Beaton per creare tutta la modisteria di My Fair Lady e Colazione da Tiffani (le cui opere di Paulette vennero indossate da Audrey Hepburn) e Gigi.

In seguito ha lavorato con Pierre Cardin, Pierre Balmain e persino Coco Chanel (che anche lei aveva iniziato la sua carriera nella moda come modista).

Anche quando i cappelli divennero meno popolari negli anni ’60, Madame Paulette continuò a creare collezioni di 60 modelli di modisteria due volte l’anno per altri vent’anni e a realizzare cappelli per clienti di fascia alta e reali come la Principessa Grace di Monaco e la Duchessa di Windsor. 

Alcuni degli ultimi designer con cui ha lavorato sono stati Thierry Mugler e Claude Montana negli anni ’80. Purtroppo non ha potuto assistere alla presentazione della sua ultima collezione a causa della sua morte improvvisa nel settembre 1984, all’età di 84 anni.

Molti campioni dello squisito lavoro di Madame Paulette sono stati conservati per ricordare questa grande modista. A Parigi, il Musée Galleria e il Musée des Arts Décoratifs ospitano ciascuno circa 100 dei suoi pezzi. A New York City, collezioni più piccole si trovano al Met Museum of Art e al Museum of the City of New York.

Alla sua morte il giornale Libération scrisse come suo tributo:

 “In ogni cappello di Madame Paulette c’era un fascino e una grazia uniche di una grande donna che un tempo doveva essere molto bella, e che ha conservato fino alla fine, con i suoi occhi scintillanti e maliziosi, un fascino ammaliante.”

Un simbolo non solo nella moda, ma anche per simbolo per dare forza alle donne

Paulette, 1980. Fotografia di Helmut Newton

Per me Paulette non è solamente il simbolo di una artigiana dalla grande maestria, di un’artista dall’immaginazione sconfinata “in grado di creare qualcosa dal nulla” come disse André Lemarié, grande designer dell’industria couture dell’epoca.

Per me Paulette è un simbolo di una donna libera che ha saputo spiccare il volo e realizzare se stessa nonostante tutto. 

È una donna che si è concessa senza riserve di fare ciò che amava divertendosi, esprimendo se stessa e creando qualcosa che è rimasto nella storia.

È stata un’imprenditrice, un’artista, una madre, una moglie. E nulla ha escluso l’altro, nonostante fosse un periodo in cui essere tutte queste cose per una donna era ancora più difficile di quanto non lo sia oggi.

Quindi questo articolo è il mio tributo per lei, per un simbolo che rappresenta qualcosa che a volte noi donne dimentichiamo: di esprimere noi stesse, di fare ciò che desideriamo, che amiamo senza farci frenare dal fatto di ricoprire anche altri ruoli. Di essere sempre fedeli a noi stesse e alle nostre passioni e di non ascoltare chi ci dice che non possiamo farlo.

Non dico sia facile, dico che ci vuole grinta, tenacia, un certo grado di pazzia (si dice pure “mad as a hatter”) e la testa sulle spalle, meglio ancora se coronata da un cappello 😉

A presto,

Anna

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